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Yeshua

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LA CROCE DI SPINE

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3) l’omicidio in occasione del quale fu arrestato Barabba

 

Senza ripercorrere la già trattata storia delle antiche varianti testuali che portano a considerare Barabba (bar Abbà, cioè “Figlio del Padre”) un sorta di “alter ego” di Gesù, è sufficiente rammentare che, con ogni probabilità, dietro alla curiosa concomitanza di vicende che pongono Gesù spalla a spalla con Barabba nell’enigmatico processo popolare (per quanto esso possa essere stato reale), si nasconde in realtà la comune imputazione per un fatto di sangue in occasione del quale gli stessi furono arrestati.

Come appena detto, le festività pasquali erano occasioni propizie per attuare i propri propositi talvolta omicidi.

Ancora una volta Giuseppe Flavio ci rammenta che

 

“… i cosiddetti sicari, cioè i ribelli, erano a quel tempo particolarmente numerosi. Si avvalevano di pugnali, di forma simile alle scimitarre dei Persiani ma curvi e più simili all'arma che i Romani chiamano sicae, dalla quale questi ribelli prendono il nome perché in questo modo uccisero così tanta gente. Come abbiamo detto prima, costoro, durante le festività, si infiltravano tra la folla che da ogni parte giungeva nella città per devozione, e così assassinavano quelli che volevano” (21).

 

È utile ricordare, in questa sede, che lo stesso discepolo “traditore” di Gesù, con ogni probabilità doveva il suo appellativo all’appartenenza alla setta dei sicari, braccio armato di quel movimento zelota che, con l’ingresso trionfale in Gerusalemme e con quello che dovette essere un vero e proprio tentativo di rovesciamento del potere politico, militare e religioso, aveva pericolosamente esposto se stesso e il proprio leader alle conseguenze di una repressione militare su vasta scala, non più gestibile come semplice operazione di “polizia”.

La stesso arresto sul Monte degli Ulivi da parte da un’intera coorte di soldati (22), acquista un senso soltanto se visto in tale ottica, mentre, come già accennato, appare un’operazione esagerata e inspiegabile se commisurata al pericolo derivante dalla presenza di un gruppetto di pacifici ed innocui oranti con lo sguardo volto al cielo.

Siamo ancora soltanto all’inizio ma l’inquietante nesso che si nasconde dietro l’intera sequenza di avvenimenti già emerge per restituire logica, coerenza e verosimiglianza alla narrazione dei “sacri testi”, volutamente frammentaria e scollegata.

Ripartiamo dall’arresto.

L’impatto dei militari e delle guardie del tempio con il gruppo formato da Gesù e dai “figli del tuono” (Boanerghes), si risolse con una resa appena turbata dalla reazione armata di Simone detto “latitante alla macchia” e “zelota” (barjona) (23) che con un colpo di spada staccò un orecchio ad un guardiano del tempio: evidentemente il “mite San Pietro” sapeva ben usare la spada, per compiere un tal gesto senza staccare la testa al malcapitato! 

Sorvoliamo sulla vena eccessivamente “miracolistica” di Luca che (da solo) fa intervenire Gesù per riattaccare al soldato l’orecchio reciso "...E, toccato l'orecchio di quell'uomo, lo guarì." (24) e rimaniamo all’episodio dell’incontro-scontro sul Monte degli Ulivi, per sottolinearne il carattere strategico e militare.

Il Monte degli Ulivi si trovava fuori dalle mura di Gerusalemme e ed in vantaggio di pendenza, in quanto sovrastante al tempio e alla Torre Antonia dove erano di stanza le truppe romane.

Abbiamo già visto che i romani, in presenza del pericolo di una sedizione armata, ricorrevano ad una tattica di tipo preventivo per non trovarsi costretti a dover fronteggiare una rivolta ormai esplosa e più difficilmente domabile. Evidentemente non riuscirono a fare ciò nel caso dell’azione guidata da Giovanni il Galileo, già svoltasi con esito soddisfacente, con l’ingresso in Gerusalemme e la presa del tempio.

Giovanni dunque, diversamente dall’”egiziano”, aveva già preso il controllo di parte della città e dello stesso Monte degli Ulivi, sul quale aveva verosimilmente stabilito il proprio quartier generale (25) e sul quale, la sera della cena, attese invano l’arrivo di ulteriori rinforzi popolari necessari a sferrare l’attacco definitivo al presidio romano: ecco il senso del tradimento di Giuda!

Qualcosa non funzionò, con ogni probabilità ci fu realmente un tradimento o una spiata, la situazione si fece pericolosa e difficile e il popolo ebbe paura di sostenere la rivolta, facendo mancare a Giovanni il necessario sostegno per infliggere il colpo definitivo.

Il nome di Giuda si presta più di qualunque altro a rappresentare quel popolo che voltò la faccia a Giovanni ed al disegno divino che lo stesso stava portando a segno: ecco il senso di un odio millenario, in parte personalizzato su questo nome e in parte riversato sull’intero popolo giudaico ritenuto colpevole del mancato riconoscimento della divina discendenza di Cristo o di quel disegno salvifico e universale che, in quel tempo e in quel luogo, nessuno mai si sarebbe sognato di vedere, cercare o semplicemente immaginare!

 

Ritorniamo al Monte degli Ulivi, soffermandoci un istante sugli strani movimenti che precedettero il “voltafaccia”.

Per individuare la sala nella quale organizzare la cena, "Egli mandò due dei suoi discepoli e disse loro: «Andate in città, e vi verrà incontro un uomo che porta una brocca d'acqua; seguitelo;" (26). Strani ordini segreti da eseguire con il ricorso a segni distintivi. Qualcosa di simile si era già verificato quando fu necessario procurare l’asina per l’ingresso in Gerusalemme: “Andate nella borgata che è di fronte a voi; troverete un'asina legata, e un puledro con essa; scioglieteli e conduceteli da me. Se qualcuno vi dice qualcosa, direte che il Signore ne ha bisogno, e subito li manderà.” (27).

Più che normali commissioni che un innocuo predicatore assegna ai propri discepoli, sembrano oscure direttive dietro alle quali si possono intravedere anonime collaborazioni, connivenze e insospettabili complicità adeguate ad un film di spionaggio!

Sono queste considerazioni che fanno assumere coerenza a singoli particolari ed aspetti di una vicenda che ebbe un senso ben diverso da quello che si è inteso costruire.

Viceversa, volendo a tutti i costi far salva l’astrusa insensata e frammentaria lettura di fatti e personaggi, si ritorna al pasticcio incoerente, cristallizzato nelle astratte e vuote formulazioni interpretative della Chiesa che da tempo immemorabile sostituiscono i fatti stessi, accecando l'intelligenza e la logica fino al punto di rendere invisibili contraddizioni e assurdità d'ogni sorta. Chiusa la parentesi “spionistica”, ritorniamo all'arresto.

La presenza di uomini del tempio insieme ai soldati romani è indice di un coinvolgimento attivo della casta sacerdotale sadducea e delle classi farisaiche conservatrici interessate, come gli occupanti, alla cattura di chi si era proclamato Re dei Giudei.

L’alleanza non fu del tutto insolita: la famiglia di Giuda il Galileo, infatti, era portatrice di un diritto che, su basi dinastiche già al tempo di Erode il Grande (o addirittura di suo padre Antipatro), avrebbe potuto avere il sopravvento sull'esercizio abusivo del potere regale da parte di quest’ultimo.

Roma dal canto suo, dopo lo smembramento del regno di Archelao, avvenuto nel 6 d.c. e fino alla ricostituzione del regno di Giudea, affidato ad Erode Agrippa nel 41 d.c., dovette esercitare tramite il legato di Siria il controllo sulla regione divenuta provincia e governata da prefetti, sulla quale comunque, per più di trent’anni, i membri della dinastia erodiana continuarono verosimilmente a nutrire mire di potere.

Normale, quindi, che ad opporsi al disegno insurrezionale di Giuda prima e dei suoi figli dopo, non fosse solo il potere romano ma anche la casta sacerdotale conservatrice e quelle classi benestanti di orientamento farisaico, opportunisticamente alleate degli occupanti romani, che sostenevano i disegni degli erodiani.

Tuttavia, la casta sacerdotale e le classi benestanti che nella stessa si riconoscevano, se non vi fossero stati altri motivi oltre a quello della difesa della fede ufficiale, non avrebbero potuto godere di alcun sostegno militare da parte dei romani, estranei a beghe religiose di qualsiasi sorta e tolleranti con qualsiasi fede.

Soltanto la comune preoccupazione per l’ordine pubblico poteva unire i romani ai sadducei ed ai loro alleati nella lotta contro l’attività rivendicativa del figlio del terribile Galileo, condotta con l’appoggio del movimento insurrezionale zelota nel quale lo stesso svolgeva un insostituibile ruolo carismatico ed aggregativo.

L’appoggio operativo di locali esponenti del tempio, inoltre, venne dato probabilmente anche per un motivo di carattere prudenziale: Giovanni (così come suo nonno, suo padre ed i suoi fratelli) appartenne ad un universo fideistico intransigente e purista che rispondeva a regole ben precise, in base alle quali il contatto fisico con un incirconciso, necessario per procedere ad un arresto, sarebbe stato visto come un oltraggio insopportabile non solo dagli arrestati, ma anche da parte di quella componente della popolazione che, pur avendo accolto il corteo trionfale in Gerusalemme, apparve poi divisa, indecisa e intimorita dall’azione repressiva romano-sadducea. Questa parte del popolo finì col non raccogliere l’invito del movimento zelota, abbandonando Giovanni al suo destino sul Monte degli Ulivi.

L’eventuale arresto con modalità “irriguardose” avrebbe appunto potuto risvegliare gli animi dei “traditori” più ortodossi con le immaginabili conseguenze: è da presumere che ciò fu tenuto in debito conto durante la pianificazione dell’operazione.

Salvo rari casi, la politica espansionistica romana, nel contatto con le popolazioni dei territori sottomessi, si mosse sempre con molta cautela e rispetto di tradizioni e culti locali, cercando di non alterare quegli equilibri delicatissimi che, se violati, avrebbero poi reso difficile un adeguato controllo politico e militare dei territori sottomessi (28). 

In una situazione così delicata come dovette essere quella dell’arresto di un uomo che presso il popolo (o buona parte di esso) godeva di dignità messianica, si dovette per forza far ricorso ad un criterio ispirato alla massima prudenza.

Naturalmente, una volta portata felicemente a termine la delicata operazione, ai soldati non parve vero di dar libero sfogo alla rabbia repressa, attraverso lo scherno, le percosse e la flagellazione. 

Supponiamo ora per un momento di essere in errore ed immaginiamo che al posto del pericoloso erede davidico in procinto di rovesciare con un’azione violenta il potere di Roma, vi fosse realmente l’”Agnus Dei” dei Vangeli.

Se fosse stato vero che i militari, arrestando il “bestemmiatore”, non intesero fare altro che accontentare a malincuore la richiesta del popolo ebraico e dei suoi indignati sacerdoti, per quale motivo avrebbero poi infierito con rancore e rabbia sul prigioniero? 

I soldati di un impero che estese la sua potenza e la sua civiltà su quasi tutto il mondo conosciuto al tempo, erano forse dei sadici simili a bestie, oppure erano così solidali con il popolo ebraico sottomesso da odiare e per questo massacrare a sangue il “bestemmiatore” di un Dio a loro estraneo?

Che dire poi, del motivo della condanna, “Questi è il re dei giudei”, riportato sul “titolo della croce” che secondo Svetonio, doveva essere obbligatoriamente affisso in cima al patibolo (29)?

Il condannato era forse stato giudicato reo di essersi proclamato re di un altro mondo o “Figlio di Dio”?

Per una colpa religiosa innocua dal punto di vista dell’ordine pubblico, un ebreo poteva essere arrestato da soldati romani, giudicato da un’autorità romana in base alla legge romana e condannato a morire su un patibolo romano destinato a punire coloro che avessero gravemente violato l’ordine pubblico?

Per altro verso, è credibile l'immagine di un popolo che qualche giorno dopo aver accolto festosamente l'ingresso in Gerusalemme del Re dei Giudei, "prese dei rami di palme, uscì a incontrarlo, e gridava: “Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d'Israele!"” (30), fa poi di tutto per farlo ammazzare dai suoi acerrimi nemici ai quali, per ottenere questo, dichiara la sua fedeltà "...Noi non abbiamo altro re che Cesare" (31)?

Quale attendibilità accreditare all'immagine di un popolo che grida il suo "crucifige", pur cosciente di commettere un crimine così ingiusto da doverne poi sopportare le conseguenze, "...E tutto il popolo rispose: «Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli" (32)?

È come se in un film l’attore che interpreta il ruolo del "cattivo", nell’atto di commettere un crimine, invochi per se stesso il giusto castigo!

 

Cosa avrebbero potuto, infine, aggiungere o togliere le decisioni del Sinedrio al destino del re dei giudei, reo di aver attentato alla sovranità di Roma?

A cosa sono volti gli sforzi degli Evangelisti, dei “copisti ispirati” e dei primi padri della Chiesa, nel raffigurare il terribile Pilato (giudicato tale anche da Giuseppe Flavio e da Filone d’Alessandria) come un demente che pende dalle labbra del popolo, se non ad assolvere i romani e colpevolizzare gli ebrei per la morte di quel “Re dei Giudei” che soltanto “ a posteriori”, un secolo e mezzo dopo, inizierà ad essere considerato “Re del Mondo” e “Figlio di Dio”? 

 

Fino ad ora, per dimostrare la “sostituzione di persona” di un re davidico con un “Salvatore del mondo”, ci siamo dovuti accontentare di indizi evidenti ma indiretti, spesso dati dalla sopravvivenza testuale di qualche traccia spuria, limitandoci a supporre l’esistenza di grandi tagli e censure che le pie mani della Chiesa avrebbero effettuato, oltre che sui propri testi, anche e soprattutto, sulle cronache degli storici del tempo e, in particolare, sulle opere di Giuseppe Flavio.

Ma, per rimanere vicini a tali ultime preziose testimonianze, vista la straordinaria importanza dell’argomento in corso di approfondimento (la condanna e la crocifissione), è possibile provare concretamente manomissioni, censure e soprattutto alterazioni cronologiche strumentali alla conferma delle fonti neotestamentarie e al guadagno in termini di credibilità storica per le stesse?

La metodologia scientifica che ci vantiamo di seguire ci impone di affrontare tale compito individuando le “anomalie” con sufficiente chiarezza, valutandone, di conseguenza, la portata e l’incidenza sulle comuni convinzioni: per questo, crediamo sia giunto il momento di aprire una parentesi che sicuramente non lascerà il tempo che trova.

Le narrazioni neotestamentarie sulla passione, la condanna, la crocifissione e la resurrezione di Gesù Cristo sapranno attenderci in fondo alla nostra digressione, laddove ci incontreranno più forti delle argomentazioni necessarie a comprenderne gli aspetti più oscuri ed apparentemente inspiegabili.