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LA CROCE DI SPINE

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IL PROBLEMA DELLA DATAZIONE DEI MANOSCRITTI

 

Ritorniamo agli antichi testi in greco koinè per gettare uno sguardo sulle più remote testimonianze a noi pervenute.

In totale (dai minuscoli frammenti ai testi completi) esistono circa 5700 esemplari in varia forma e di varie epoche (fino al IX secolo).

Tale ingente mole, senza precedenti tra tutte le opere dell’antichità, viene da molti considerata quale prova di autenticità dei canoni, in base ad un’oscura equazione secondo la quale più uno scritto è copiato e diffuso, meno è alterato rispetto alle sue prime stesure e più testimonia la verità.

Secondo logica dovrebbe essere il contrario: la diffusione di uno scritto può al massimo testimoniare l’interesse nel tempo per l’argomento trattato nello stesso, tuttavia la probabilità di alterazione del testo (volontaria o involontaria che sia) cresce proporzionalmente con il proliferare delle copie mentre, di conseguenza, diminuisce la conformità di queste con l’originale e quindi l’attendibilità storica delle stesse… sempre ammesso che, nel nostro caso, all’originale possa essere riconosciuta tale qualità.

Riguardo, poi, alla quantità di manoscritti, è bene precisare che soltanto l’1,78% di essi (93 manoscritti su 5700, peraltro quasi tutti frammentari) risale ai primi cinque secoli, mentre i rimanenti 5600 circa, divisi tra papiri e onciali, sono successivi al V secolo. 

I più antichi frammenti dei quali è stato possibile per noi moderni prendere visione, risalgono al terzo o quarto secolo, con la sola esclusione di pochi frammenti in parte rinvenuti a Oxyrhynchus, risalenti pare al secondo secolo (secondo le datazioni paleografiche che, come vedremo, soffrono di molti limiti), in un’epoca, quindi, nella quale verosimilmente avevano già assunto una certa forma le “grandi falsificazioni” che, per via deduttiva, sono in minima parte cronologicamente collocabili nel primo secolo, mentre sono appartenenti, con ragionevole probabilità, al periodo che seguì al definitivo tramonto dell’ideologia messianico-giudaica, coincidente con la sconfitta dell’ultimo messia Simone bar Kochba (135 d.c.).

 

Gli interventi operati dalle “pie mani” dei santi falsari ebbero luogo probabilmente già dalla diffusione delle prime edizioni scritte (48), mediante integrazioni e censure mirate, su un “corpus” che probabilmente già non testimoniava più la realtà storica di quel messianismo giudaico da rinnegare e dimenticare.

Non sapremo mai (salvo nuove clamorose scoperte) fino a che punto l’immagine del “Figlio di Dio” apparisse compiuta in quelle prime edizioni delle quali non ci sono pervenuti che striminziti frammenti (a volte grandi come francobolli), di difficile lettura.

 

Innanzitutto è interessante notare che i pochissimi frammenti risalenti al II secolo (secondo gli studi paleografici da prendere con beneficio d’inventario), riportano esclusivamente passi del Vangelo di Matteo e di quello detto di Giovanni, nei quali non appaiono riferimenti alla qualità divina di Cristo se non per il solo frammento denominato P90, (secondo la paleografia risalente alla fine del II secolo), rinvenuto ad Oxyrhynchus, recante anche tracce del verso di Giovanni 18:36: “Gesù rispose: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori combatterebbero perché io non fossi dato nelle mani dei Giudei; ma ora il mio regno non è di qui”.

A questo punto è d’obbligo proporre una riflessione sui limiti della datazione paleografica e sulla ricostruzione testuale dei frammenti.

La paleografia non è una scienza esatta, per il semplice motivo che è fondata sul giudizio soggettivo dello studioso, espresso in base allo stile di scrittura, all’uso di certe chiavi espressive, alla struttura del supporto e a molti altri aspetti del reperto studiato, da comparare con altri reperti di datazione certa.

Tanto per fare un esempio, il frammento denominato P64 (detto anche papiro di Magdalen) è stato datato nel 1901 al III- IV secolo dal papirologo A.S. Hunt, successivamente, nel 1953, è stato datato al II secolo da C. H. Roberts mentre C. P. Thiede, nel 1995, ne propose la ridatazione addirittura al I secolo.

Lasciarsi andare ad euforici entusiasmi (atteggiamento in uso presso certi ambienti accademici vicini alla Chiesa) soltanto perché un papirologo, pur affermato, si pronuncia per una datazione remota di un determinato frammento, significa costruire certezze storiche sulle “sabbie mobili” delle mere opinioni!

 

La stessa considerazione vale per la ricostruzione testuale delle parti mancanti in un frammento.

Il papiro “recto e verso” denominato P52 (detto anche “papiro di Rylands) è considerato universalmente come il più antico frammento pervenutoci in quanto da molti fatto risalire con certezza al 125 d.c.

Quando però andiamo a sondare le argomentazioni sulle quali si basa tale certezza, ci accorgiamo di quanto esse siano labili ed opinabili: la datazione, espressa per analogia dello stile di scrittura con quello di alcuni frammenti risalenti a diversi decenni del tardo I secolo d.c. e soprattutto del II (tra i quali anche quello di un rotolo dell’Iliade), è stata in qualche modo forzata al 125 d.c. per coerenza con la datazione ufficialmente assegnata al Vangelo di Giovanni, del quale recherebbe sillabe o parti di parole appartenenti a 5 versi (49)!

Nel 1989 A. Schmidt, rompendo la diffusa coralità di opinioni di specialisti che da decenni indicavano nel 125 d.c. l’anno di redazione del frammento papiraceo, si espresse per una diversa datazione dello stesso (al 170 d.c. con 25 anni in più o in meno di errore).

Nel 2005 B. Nogbri della Yale University sostenne che le argomentazioni in base alle quali il frammento in questione viene datato con precisione al 125 d.c., sono in realtà valide per ritenere lo stesso composto addirittura alla fine del II secolo o perfino all’inizio del III (50).

 

Tuttavia, seppure ci sforzassimo di ammettere che il frammento risale ai primi decenni del II secolo, non troveremmo nello stesso alcun originale riferimento, in un tempo che si vuole così antico, alla qualità soprannaturale e divina di Cristo né un insieme minimo di parole consecutive o frasi che possano sufficientemente provare l’integrale corrispondenza dei versi riportati (Gv. 18: 31-33 e Gv. 18: 37-38) alla versione a noi nota degli stessi.

In particolare, tra Gv. 18: 33 e Gv. 18: 37 c’è il già citato Gv. 18: 36 (nel quale si fa riferimento alla qualità “celeste” della figura messianica) che nel papiro in questione forse non a caso non compare, mentre appare invece in papiri probabilmente successivi, come il P90.

 

Nei riferiti versi di Giovanni (18:37 -38), appare la domanda posta da Pilato a Cristo sulla sua titolarità regale; aspetto, questo, coerente con la natura davidica e terrena riconosciuta al messia nel mondo giudaico antico nonché con lo stesso unico e solo capo d’imputazione, in base al quale lo stesso fu verosimilmente arrestato e condannato: “Allora Pilato gli disse: «Ma dunque, sei tu re?» Gesù rispose: «Tu lo dici; sono re; io sono nato per questo, e per questo sono venuto nel mondo: per testimoniare della verità. Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce». Pilato gli disse: «Che cos'è verità?»” .

Potremmo fermarci alla coerenza dei citati versi con l’immagine regale (e non celeste) che in un tempo così antico veniva data del messia, ma preferiamo andare oltre e proporre qualche riflessione sulla globale corrispondenza di contenuti, sostenuta dalla critica testuale, tra la versione a noi nota dei succitati versi e quella antica presente sul frammento.

 

Prendendo a riferimento la versione greca nella quale è scritto il frammento, al “recto” sono leggibili 54 caratteri su circa 340, mentre al “verso” appaiono soltanto 47 caratteri su circa 300: in entrambi i casi, sul papiro sono presenti meno del 16% dei caratteri di cinque versi noti, mentre la rimanente parte (84%) è stata semplicemente ricostruita sulla base dei corrispondenti versi conosciuti, del numero presunto di linee (in alcuni casi completamente mancanti) e della sticometria (numero presunto di caratteri per linea).

Infatti, su base sticometrica si “immagina” che in origine, nel frammento in questione, Cristo fosse stato identificato mediante la “nomina sacra” (51); ciò lascerebbe intendere una qualità divina riconosciuta allo stesso già in tempi molto remoti (quelli della datazione ufficiale del frammento).

La parzialità dei caratteri presenti nel frammento, impedisce perfino di leggere chiaramente nello stesso il nome di Pilato, del quale appare soltanto la prima lettera, peraltro danneggiata, la quale potrebbe anche autorizzare a pensare ad un nome diverso, come, ad esempio, Tito.

Praticamente, prendendo a riferimento la porzione al verso, sul frammento appaiono solo singoli caratteri o sillabe per lo più appartenenti alla versione greca delle parole “sono nato”… “per questo”…  “testimoniare”:

 

“Allora Pilato gli disse: «Ma dunque, sei tu re?» Gesù rispose: «Tu lo dici; sono re; io sono nato per questo, e per questo sono venuto nel mondo: per testimoniare della verità. Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce». Pilato gli disse: «Che cos'è verità?»” .

 

La ricostruzione delle parti mancanti non può prescindere dalla conoscenza della versione moderna del testo che il frammento, in minima parte, esprime: partendo dalle pochissime parole note (o parti di esse), si collocano i caratteri circostanti (presenti sulle linee adiacenti o sulla stessa linea) nelle corrispondenti parole del testo noto, si calcola il numero di caratteri per linea (in genere costante nell’intero documento) e si verifica la coerenza di tale numero con quello dei caratteri che compongono le parole note mancanti.

Nel caso del frammento P52 (ma anche in altri casi), tale pochezza è stata ritenuta sufficiente, da un certo “mondo accademico”, per affermare che il papiro, datato al 125 d.c. (prima inaccettabile approssimazione) è una prova che già in un tempo così remoto erano stati scritti almeno cinque versi integralmente corrispondenti agli stessi a noi noti (seconda inaccettabile forzatura), e che, dunque, l’intero corpus neotestamentario che conosciamo corrisponde globalmente a quello scritto nei decenni successivi a quelli delle vicende di Cristo, ben testimoniate dagli attuali Vangeli canonici (affermazione fraudolenta, mistificante e meramente apologistica).

 

Infine, nulla di certo, serio e scientificamente attendibile, può essere ravvisato negli studi condotti da una certa corrente, dalla quale emergono gli scritti del papirologo tedesco C. P. Thiede (52). Egli si sforzò di retrodatare al I secolo molti frammenti, tra i quali il papiro di Magdalen (P64 che riporta parti del Vangelo di Matteo), e sostenne le asserzioni del gesuita O’Callaghan il quale, spinto dall’immaginazione e dal fervore mistico, ritenne di individuare in vari frammenti della grotta 7 di Qumran alcuni passi di lettere neotestamentarie, Atti degli Apostoli e Vangeli.

Il dibattito scientifico si concentrò soprattutto sul frammento di 4 centimetri per tre denominato 7Q5 recante, secondo O’Calleghan, 2 versi del Vangelo di Marco (Mc. 6:52-53), databile sempre secondo lo stesso, all’incirca alla metà del I secolo.

Senza entrare nelle complesse argomentazioni date a sostegno di tale attribuzione (basate sui tratti di soli nove caratteri presenti e su mere ipotesi per le decine di altri mancanti), per comprendere l’entusiasmo e lo slancio degli studiosi di fede cristiana, basti pensare che se le loro asserzioni rispondessero al vero (cosa che appare davvero molto dubbia), il frammento 7Q5, oltre ad essere il più antico in assoluto, sarebbe l’unico “testimone” tra migliaia di altri manoscritti neotestamentari dei primi secoli, a confermare la cronologia degli eventi espressa della chiesa sulla nascita e lo sviluppo del primo cristianesimo: il tutto con grande soddisfazione della storiografia cristiana che, per il resto, da Qumran ha avuto solo guai…

Si potrebbe affermare, infatti, che già negli anni immediatamente successivi alla crocifissione, fu realizzato un Vangelo, unico a provenire da rotolo anziché da codice. Tale singolarità non depone certo a favore dell’appartenenza del frammento al corpus neotestamentario.

Seguendo, poi, un discutibile percorso concettuale al quale certi studiosi sono soliti ricorrere, si può arrivare a dichiarare che se il frammento 7Q5 corrisponde ad un testo a noi noto, anche il resto del Vangelo di Marco e lo stesso Cristo in esso testimoniato non dovrebbero essere diversi da quelli che conosciamo.

E ancora: affermando la corrispondenza di 7Q5 ai versi di Marco e sostenendo, come fa la Chiesa, che tale Vangelo fu scritto a Roma (magari per tradurre, per un pubblico romano, un Vangelo semitico più antico), si arriva ad ammettere che nell’arco di vent’anni un Vangelo fu prima scritto in lingua ebraica, in seguito inviato a Roma da dove, una volta tradotto in greco, fu rispedito in Palestina per essere conservato tra le testimonianze scritte della comunità di Qumran.

Dunque, avrebbe avuto ragione il mensile cattolico “30Giorni” a riportare in copertina, nel numero di giugno 1991, il titolo “E Marco subito scrisse”(53); anzi, verrebbe da pensare che l’Evangelista, munito di block notes e penna, abbia già iniziato a scrivere dai piedi della croce, per risparmiare tempo!

L’inquietante carenza di riscontri storici, particolarmente sofferta in certi ambiti accademici, può far perdere il senso del reale anche a studiosi affermati e di fama mondiale!

Allo stato attuale la diatriba non è risolta, ma la maggioranza degli studiosi (menomale che il buonsenso alla fine ha la meglio…) non è affatto orientata ad avallare la linea O’Callaghan/ Thiede (54).

Diciamo, dunque, che in assenza di nuove clamorose scoperte, non ci sono elementi attendibili per abbandonare l’idea che i primi scritti neotestamentari abbiano visto la luce soltanto un secolo, forse un secolo e mezzo, dopo l’avvenimento dei fatti narrati. Di conseguenza, questi, già in seno alla tradizione orale, possono aver avuto tutto il tempo per diventare molto diversi da quelli accaduti…

Per arrivare ad una forma almeno in parte definita e completa di un intera fonte o di una raccolta di fonti, è necessario attendere almeno il III secolo, relativamente ai frammenti P66 e P75, o più attendibilmente, il IV secolo con il Codex Vaticanus e quello Sinaiticus, sui quali appaiono i canoni nella loro interezza.

 

Volendo giungere ad una sintesi conclusiva di questa parentesi sui più antichi frammenti neotestamentari, si può affermare che:

 

-          non esiste un solo frammento papiraceo ragionevolmente attribuibile al I secolo;

 

-          non esiste, parimenti, un solo frammento in quella che dovrebbe essere la lingua d’origine dei personaggi narrati nei Vangeli: tutti i frammenti sono stati scritti in greco koinè;

 

-          tutto ciò che possediamo risale in minima parte (forse) alla seconda metà  II secolo, per lo più al III o al IV secolo e, soprattutto, a quelli successivi;

 

-          infine tutto ciò, che sappiamo sulla divinità di Cristo, i miracoli, la nascita, la morte e la resurrezione, assume per la prima volta consistenza e forma compiuta soltanto nei Codex Vaticanus e Sinaiticus dei quali sono state rinvenute copie risalenti soltanto al IV secolo!