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Yeshua

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LA CROCE DI SPINE

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LA SINTESI NEOTESTAMENTARIA

 

Giovanni figlio di Giuda il Galileo e Yeshua figlio di Panthera: due personaggi con carisma divino e dai ruoli diversi, ma che percorrono strade parallele su un comune disegno escatologico e ineluttabile perché voluto da Dio.

La vittoria finale mancò, la “fine dei tempi” non venne, il sogno si infranse sotto i colpi micidiali delle armate di Tito e più tardi di quelle di Adriano, e sembrò lasciare il passo allo sgomento e alla disperazione.

Molto tempo dopo e lontano da quei luoghi, qualcuno seppe trasformare la sconfitta in vittoria, la desolazione di una fine nella gioia di un principio, il castigo della terra nel premio del cielo, la spada nel ramoscello d’ulivo, il riscatto d’Israele nella salvezza del mondo, la storia nella favola…

La “buona novella viaggiò per mare e per terra, conquistando popoli e paesi ma il prezzo da pagare fu altissimo: la negazione delle proprie origini e la cancellazione della memoria.

L’orgoglio nazionale, anima del messianismo, divenne vergogna e condanna dello stesso giudaismo disperso in un mondo ostile, lasciato ai margini delle società civili, quasi mai tollerato, ovunque tormentato a causa dell’infame e indelebile marchio del deicidio.

La favola, ormai lontana dalla realtà, si mosse a velocità crescente sulle ali della sublimazione mistica, fagocitando antichi archetipi appartenenti all’universo fideistico pagano e, più in particolare, al mondo ellenistico e ai culti misterici.

Di fronte ai pericoli di una tradizione orale, perennemente soggetta ad incontrollabili trasformazioni e ancora insidiata dal ricordo e dalla rivendicazione della memoria storica, si avvertì l’esigenza di immortalare l’immagine definitiva del “Salvatore del Mondo”.

L’immagine di Yeshua, il predicatore illuminato il cui ricordo regnò nel cuore di più generazioni, iniziò a mescolarsi con quella più antica di Giovanni, il messia sconfitto la cui vicenda aveva infiammato gli animi ed alimentato i sogni di un popolo convinto della propria divina investitura. Nonostante tutto per decenni, anche di fronte alle rovine fumanti del tempio, esso continuò a ritenere il proprio destino ineluttabile e irrinunciabile.

La parola e il nome del primo, la vicenda del secondo: il confuso, complesso e lento processo di rielaborazione storico-teologica, che prese corpo soltanto nel II secolo dopo la sconfitta di Simone bar Kochba. Il “figlio della stella”, rappresentò l’ultima tenue speranza di un messianismo disperato, alla quale poteva seguire soltanto la rassegnazione o, come accadde, il ripensamento, la riconversione e la rilettura della storia a costo del rinnegamento delle proprie radici.

 

Non si può affermare fino a che punto la fusione di due individui in un solo uomo-dio sia stata scientemente indotta da un piano preordinato, e quanto, invece, abbia risposto ad oscure e spontanee dinamiche antropologiche.

 

Di certo si può dire che quella dualità messianica, così specifica del mondo giudaico, sarebbe rimasta incompresa nel mondo ellenistico-romano, dove non avrebbe potuto esercitare quell’effetto trascinante dato dalla straordinaria unicità del “Figlio di Dio” e della sua specularità con il Padre. Questi fu destinato a prendere il posto di una schiera di Dei in crisi di legittimazione in seno a quel paganesimo romano del II secolo, sempre più orientato verso espressioni di culto monoteiste (Dio Sole).

 

Nacquero e si diffusero i primi scritti poi corretti, integrati, aggiustati, distrutti, ripensati e ricostruiti, in un vortice di trasformazioni che uccise la verità con la pretesa di testimoniarla e ostentarla al mondo.

Già nel II secolo, un attento e qualificato osservatore seppe individuare il vero criterio ispiratore di quelle trasformazioni, lasciandoci una testimonianza sulla quale i sostenitori della “verità” dei Vangeli dovrebbero riflettere:

 

“ È noto a tutti che ciò che avete scritto è il risultato di continui rimaneggiamenti fatti in seguito alle critiche che vi venivano portate”(162).

 

Il cerchio si strinse intorno ai quattro canoni neotestamentari e le “voci diverse” furono assimilate o soppresse affinchè la “verità” avesse un volto solo.

Nel lungo cammino che portò alle prime grandi raccolte complete del IV secolo (163) o alla Vulgata di Girolamo (V secolo), nella quale venne razionalizzata l’immensa e promiscua mole di materiale editoriale preesistente noto come Vetus Latina, l’immagine del “Redentore” acquistò sempre più stabilmente forma e fisionomia. Tuttavia, serbò tra le pieghe e le smagliature del tessuto testuale, il seme dell’originaria ispirazione storica, evidente solo agli occhi dell’esegeta attento e disincantato che dietro al Gesù Cristo figlio di Dio, messia unico per necessità teologica, è in grado di scorgere le “impronte digitali” di due diverse individualità, cancellate dalla storia e oscurate (fortunatamente non del tutto) nelle cronache del tempo, forzate in un solo personaggio e in una sola vicenda: proprio per questo, in essi convivono aspetti reciprocamente inconciliabili e inspiegabili contraddizioni.

Gesù o Yeshua, per chiamarlo con il suo vero nome, testimone autentico di quella spiritualità di matrice essena volta al riscatto dei poveri e alla condanna degli oppressori, convive con l’indole guerriera del “figlio di David”, chiamato a liberare Israele con le armi.

Il testamento d’amore scolpito nelle parole del “discorso della montagna” (164) convive con il programma di guerra di chi dice: “non sono venuto a metter pace, ma spada.” (165).

La povertà delle origini convive con la discendenza regale e perfino l’accusa religiosa di magia e apostasia diviene titolo di esecuzione per una condanna romana, riservata ai sediziosi, su un patibolo romano recante a pubblico monito il capo d’imputazione: ”Questi è il re dei Giudei”.

Tale imputazione non ha senso per il “Figlio di Dio” titolare di un regno che “non è di questo mondo”, così come non ha senso per un predicatore illuminato designato come guida spirituale della nuova Israele.

L’accusa è invece coerente soltanto nei confronti di chi, rivendicando un titolo usurpato, promuova una rivolta armata contro gli usurpatori e i loro alleati.

La trasformazione del titolo messianico di “Unto” (Cristo), appartenuto al messia davidico, in una sorta di identificativo anagrafico simile ad un moderno cognome, ha vissuto nei secoli accanto al nome appartenuto al messia di Aronne (Yeshua).

Qual fu il risultato? Da Gesù più Cristo nacque… Gesù Cristo!